L’11 aprile è una data che pesa. È il giorno in cui, nel 1987, Primo Levi se ne andò. Lasciò un vuoto che non è solo letterario, ma umano, civile, necessario. Levi non è stato solo uno scrittore, ma una memoria vivente. Un testimone scomodo, lucido, diretto, che ha trasformato il dolore dell’esperienza concentrazionaria in racconto, in riflessione, in consapevolezza. E in tutto questo, non ha mai smesso di interrogarsi — e di interrogarci — su un tema che lo ha attraversato come una linea sottile e feroce: la solitudine.

Una vita tra la chimica e la memoria
Primo Levi nacque a Torino il 31 luglio 1919. Laureato in chimica, fu deportato ad Auschwitz nel 1944 in quanto ebreo e partigiano. Tornò nel 1945, uno dei pochissimi sopravvissuti italiani al campo di sterminio. Fu uno di quelli che “ce l’hanno fatta”, ma portando con sé un peso che non si alleggerì mai davvero.
Da questa esperienza nacque il suo libro più famoso, Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947. Un libro che è più di un libro: è un grido composto, una testimonianza asciutta, un atto di resistenza morale. Levi scelse di raccontare per sé e per gli altri, per chi non poteva più parlare
Dare voce a chi è stato annientato
«Meditate che questo è stato», scriveva Levi. La sua missione non era solo raccontare l’orrore, ma anche impedire che venisse dimenticato. Parlava per quelli che erano stati ridotti al silenzio eterno. In un tempo in cui ancora troppi negavano o minimizzavano, Levi ricordava che dietro ogni numero tatuato sul braccio c’era una persona, con un nome, una storia, una paura.
Eppure, più raccontava, più Levi sembrava avvertire la distanza tra lui e chi non aveva vissuto quell’inferno. Una distanza che spesso sfociava nella solitudine.
La solitudine secondo Primo Levi
Per Primo Levi, la solitudine non era solo uno stato d’animo passeggero. Era una condizione esistenziale. La solitudine del prigioniero, la solitudine del testimone, la solitudine del sopravvissuto.
La solitudine, nei suoi scritti, assume forme diverse:
- è isolamento fisico: come quello del campo, dove il contatto umano è annientato;
- è incomunicabilità: quella del ritorno, quando nessuno può capire davvero;
- è vergogna: per essere sopravvissuto, per essere “ritornato” quando altri no;
- è memoria che brucia: perché ricordare è anche rivivere, e rivivere da soli.
Secondo Levi, l’uomo può tentare di superare la solitudine attraverso la parola, il dialogo, il sapere. La scrittura stessa fu per lui un modo per non soccombere. Eppure, non sempre basta. A volte, anche il ponte più solido tra sé e l’altro resta sospeso nel vuoto.
La solitudine vissuta
Negli ultimi anni della sua vita, Levi visse un isolamento sempre più profondo. Nonostante i successi letterari, nonostante l’affetto di molti lettori, si percepiva tagliato fuori. Era uno che parlava da un altrove, da un tempo e da un luogo che nessun altro voleva davvero ascoltare.
La sua morte, avvenuta l’11 aprile 1987, fu ufficialmente dichiarata un suicidio. E anche se le circostanze restano controverse, quel gesto — se gesto fu — è stato interpretato da molti come l’ultima, disperata risposta alla solitudine.
14 frasi di Primo Levi sulla solitudine
- «La solitudine in un campo di concentramento è più feroce della fame.»
– Se questo è un uomo - «L’uomo solo è una bestia o un dio. Io non ero né l’uno né l’altro.»
– I sommersi e i salvati - «In quel luogo non c’era più linguaggio: solo urla e comandi. E senza parola, l’uomo è solo.»
– Se questo è un uomo - «Scrivo per non dimenticare, ma anche per non restare solo.»
– Intervista del 1982 - «Chi è stato in Lager torna, ma non del tutto. Qualcosa resta là, in quella solitudine.»
– I sommersi e i salvati - «La solitudine è una forma lenta di tortura, perché ti fa dimenticare di essere umano.»
– Lettera del 1979 - «Nel silenzio del ritorno, capii che nessuno voleva ascoltare. E quella fu la solitudine peggiore.»
– Intervista con Philip Roth - «Anche chi sopravvive, porta dentro il vuoto degli altri.»
– I sommersi e i salvati - «La solitudine del sopravvissuto è di chi ha visto troppo e può dire poco.»
– Il sistema periodico - «Mi sentii come un testimone scomodo: uno che ricorda, e per questo resta solo.»
– Intervista RAI, 1984 - «Essere soli in mezzo agli altri è peggio che essere soli e basta.»
– Lettera privata del 1986 - «C’è una solitudine che consola, e una che uccide. Io le ho conosciute entrambe.»
– I sommersi e i salvati - «A volte il ricordo è l’unica compagnia che resta. E non sempre è buona compagnia.»
– Il sistema periodico - «Ho scritto per ritrovare l’altro. Per dire che, finché si racconta, non si è davvero soli.»
– Intervista a La Stampa, 1985
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